RECENSIONE del libro “PENSIONI: LA RIDUZIONE DEL DANNO”

Vi giro questa mail con la quale io e il mio amico Piero Pistolesi abbiamo recensito il libro di Cesare Damiano e Maria Luisa Gnecchi “Pensioni: La Riduzione del danno”. Poiché seguite la materia previdenziale credo che sia bene conoscere ciò che bolle in pentola al Ministero del Lavoro al quale darà manforte il Movimento 5 Stelle che tramite il suo più insignificante esponente e cioè Di Maio ha già avuto modo ieri sera di esprimersi dalla Gruber sulle pensioni.     (Michele Caponi)

Cari amici, io insieme a Piero Pistolesi voglio segnalarvi questo libro che è un libro pieno di inesattezze, omissioni e di basso valore tecnico, ma di alto valore politico. Perché dico questo? Semplice: perché questi due autori sono da anni nella Commissione Lavoro della Camera e si occupano di previdenza a stretto contatto con il Ministero del Lavoro. Ora ricordo che i politici possono cambiare, ma i dirigenti del Ministero del Lavoro no. Da quando poi la Fornero ha avocato al Ministero del Lavoro quello che era il compito del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, leggere il pensiero di questi due esponenti del PD significa capire quale potrebbe essere lo scenario futuro delle riforme previdenziali o almeno il tentativo che le multinazionali dell’alta finanza hanno in animo di fare tramite i loro servi sparsi nel mondo politico e dei media.

Nell’appunto allegato sono elencati gli aspetti del libro che più ci hanno colpito. Purtroppo prenderne visione personalmente, come sarebbe giusto fare, comporterà una spesa (13 euro) che andrà a favore di due mediocri cultori della materia che meriterebbero piuttosto di essere ignorati.

Michele

Libro di Cesare Damiano e Maria Luisa Gnecchi “PENSIONI: la RIDUZIONE del DANNO”. 

Recensione critica di Michele Caponi e Piero Pistolesi.

ALCUNE CONSIDERAZIONI:

  • Sono stati ignorati e volutamente sminuiti alcuni effetti importanti delle riforme Amato e Dini perché non si pensasse che il sistema fosse stato definitivamente messo in equilibrio. Basta ricordare che Dini affermò che con tale riforma si sarebbe messo in sicurezza il sistema fino al 2050.
  • Della riforma Dini non si parla della revisione del meccanismo della pensione di reversibilità che in presenza di redditi del coniuge superstite può arrivare fino al 50% di riduzione (quindi il 50% del 60%).
  • Sull’introduzione del sistema contributivo con la riforma Dini, la conservazione del sistema retributivo per i lavoratore che al 31 dicembre del 1995 avessero maturato 18 anni di contributi, viene presentata come il mantenimento di un privilegio e non come la scelta del legislatore di adottare un criterio di gradualità, anche in relazione alla disponibilità di un arco temporale sufficiente alla costruzione del “secondo pilastro”. Non viene riferito che tra l’alternativa contributivo/retributivo la riforma Dini prevedeva anche la possibilità di un regime misto, cosa che ne avrebbe sottolineato ancora una volta la scelta di un criterio graduale (noi peraltro rimaniamo dell’idea del mantenimento del sistema a ripartizione contro la proposta di un sistema a capitalizzazione con la reintroduzione per tutti del calcolo della pensione con un sistema retributivo legato alle retribuzioni dell’ultimo periodo lavorativo, seppur ampio).
  • Sulla riforma Amato del 1992 viene ignorato il fatto che il rendimento del 2% della media retributiva scende rapidamente fin sotto l’1% sopra la prima fascia di retribuzione pensionabile (oggi 46000 euro l’anno) per cui si ottiene non solo una riduzione drastica delle pensioni alte, ma si introduce un significativo criterio solidaristico e redistributivo di ricchezza. Dal considerare gli ultimi 5 anni di retribuzione si passa ai 10 anni. Viene modificato il meccanismo di perequazione automatica delle pensioni al costo della vita sganciandole dalla variazione dei salari dei lavoratori dell’Industria (che è tuttora invece presente in Germania). L’adeguamento al costo della vita da semestrale diventa annuale.
  • Ci sono delle gravi inesattezze come quella di attribuire le finestre (definite nel libro un’aberrazione) ad un governo di destra (si fa riferimento alla cosiddetta finestra mobile di 12/18 mesi) mentre le finestre sono nate con la riforma Dini, che ne istituiva quattro per le pensioni di anzianità; successivamente Maroni le ridusse a due mentre Prodi ne ampliava la platea, estendendole anche alle pensioni di vecchiaia.
  • Non si è sottolineato il fatto che lo “scalone” di Maroni in realtà era stato preavvisato con 4 anni di anticipo, ma che, una volta caduto il Governo di centro-destra, si sono dovuti fare i salti mortali per far finta di demolire quello “scalone”. Né si fa riferimento al cosiddetto “superbonus” previsto sempre dalla riforma Maroni. La riforma in questione prevedeva, per chi avesse maturato il diritto alla pensione di anzianità e decidesse di rimanere al lavoro, il congelamento della pensione maturata ed il riconoscimento nella busta paga dei contributi a suo carico e a carico del datore di lavoro, come retribuzione esente. Gli aspetti positivi di questa misura sono nell’incentivare la permanenza in servizio, anziché disincentivare il pensionamento, nell’affermare – senza ombra di dubbio e nei fatti – la natura retributiva dei contributi previdenziali e nel certificare l’entità della pensione maturata, che difficilmente sarebbe stato possibile modificare in futuro.
  • Non è stato dato risalto alla mancanza di un criterio solidaristico all’interno del calcolo contributivo della pensione, presente invece nel calcolo retributivo.
  • Non si è fatto alcun cenno alle varie sospensioni della perequazione della pensione e alle parziali rivalutazioni e all’aumento della loro tassazione sopra un certo importo (non certo d’oro) che hanno determinato una perdita del potere d’acquisto delle pensioni del 10% negli ultimi 10 anni, del 30% negli ultimi 20 (complice anche il passaggio all’euro) ed oltre il 30% per gli assegni più vecchi.
  • Che il blocco della rivalutazione della riforma Monti-Fornero, dapprima dichiarato incostituzionale dalla Suprema Corte e poi costituzionale da una successiva sentenza di una Corte Costituzionale i cui nuovi membri erano stati accuratamente selezionati, non salvava neppure i pensionati più vecchi che avevano già subìto precedenti blocchi
  • Si è dato un gran risalto alle 8 salvaguardie degli esodati come fosse una conquista e non il semplice rispetto del patto cittadino-Stato peraltro per un numero di circa 150.000 pensionandi su 16 mln di pensionati e per un tempo limitato di anni. Non si è detto che gli “esodati” facevano parte, in maggioranza, del Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti che era sempre stato in attivo.
  • Non si è parlato di Inpdap e della sostituzione di Mastrapasqua, che aveva osato dichiararsi preoccupato per i bilanci dell’INPS, al quale l’allora presidente della Commissione Lavoro della Camera Maurizio Sacconi aveva replicato dicendo che non c’era alcun problema di sostenibilità del sistema pensionistico nel breve, nel medio e nel lungo periodo.
  • Il progetto di riforma Damiano-Gnecchi, pur senza metterlo in discussione, prende atto che il sistema contributivo a capitalizzazione virtuale (definito in passato dal Professor Mario Alberto Coppini –luminare di statura mondiale della materia- un ritorno alla preistoria della previdenza pubblica) non è in grado di assicurare pensioni dignitose e prevede una sorta di ripristino dell’integrazione al trattamento minimo a carico della fiscalità generale. Tutto questo a fronte di una riduzione strutturale delle aliquote contributive, data per inevitabile! Praticamente si andrebbe verso la trasformazione in un sistema assistenziale del sistema previdenziale italiano, al pari di quello inglese o danese con perdita dell’aggancio al tenore sociale raggiunto alla fine dell’attività lavorativa. La nuova forma di importo minimo garantito, infine, potrebbe incentivare l’evasione fiscale e contributiva, come già avveniva con l’integrazione al minimo.
  • Si vuole per il motivo di cui sopra che il mantenimento del tenore sociale raggiunto a fine vita lavorativa si possa ottenere solo con la previdenza complementare, cosa che comporterebbe il raggiungimento di questo obbiettivo solo per i dipendenti di grandi aziende in buona salute e per figure gerarchiche alte che farebbero confluire le riduzioni contestuali della contribuzione obbligatoria sulla previdenza integrativa e sempre in dispregio del criterio solidaristico eliminato dalla riforma Dini. Questo naturalmente se gli investimenti dei contributi accantonati daranno i loro frutti, il che è del tutto aleatorio. Trasformare quello che chiamavamo secondo pilastro nel primo va a vantaggio solo dei gestori di risparmio.
  • Si sono dedicate solo due pagine ai sistemi pensionistici degli altri Paesi limitandosi solo a Francia, Regno Unito e Germania. Personalmente non conosco quello francese, ma quello tedesco per quanto ne so riconosce il 60% dello stipendio goduto nell’ultimo anno di lavoro (con 40 anni di contribuzione) e le pensioni sono defiscalizzate e agganciate all’aumento delle retribuzioni dei lavoratori dell’Industria (come era da noi prima della riforma Amato). Della pensione inglese poi si tace che il sistema pensionistico inglese è improntato a ben altri criteri e la contribuzione obbligatoria pagata dai lavoratori è un terzo di quella italiana
  • Resta positiva e più che condivisibile la chiara ed inequivocabile critica alla riforma Fornero che “ha creato più danni di quanti ne abbia risolti”.
  • Gli autori soffiano sul fuoco del “conflitto generazionale” quando si riferiscono ai cosiddetti Baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1964: una generazione che ha beneficiato di un prolungato periodo di sviluppo economico. Ciò ha permesso di sostenere dei sistemi pensionistici robusti, basati sul criterio retributivo (a prestazione definita). La pensione è correlata alle retribuzione degli ultimi anni di lavoro.   Il boom delle natalità nell’arco di tempo indicato è un fenomeno che si è verificato negli Stati Uniti ed è li che il termine è nato. In Italia non c’è stato boom demografico e se vogliamo dare al termine il significato di “figli del boom economico” allora dobbiamo riconoscere che di un prolungato periodo di sviluppo economico hanno beneficiato anche i genitori dei cosiddetti baby boomers. Così il robusto sistema pensionistico è toccato in sorte prima ai genitori dei baby boomers (cosa della quale siamo assolutamente contenti e non abbiamo rivendicazioni da fare nei confronti di chi non c’è neanche più). Il sistema pensionistico a “ripartizione” e i contributi degli attivi (baby boomers) hanno consentito il pagamento delle pensioni dei loro nonni e genitori. Tali pensioni erano calcolate sulla base delle ultime retribuzioni. Perfino le ferie non usufruite nel corso degli anni di lavoro venivano liquidate con l’ultima retribuzione prima della cessazione, maggiorate del 20%, ed entravano a far parte del calcolo della pensione. Nulla di illegale, va detto. L’età per la pensione di vecchiaia era di 60 anni per gli uomini e 55 per le donne. La possibilità di andare in pensione di anzianità si maturava generalmente a 57 anni.   Ma certo ora fa comodo riferire il “prolungato periodo di sviluppo economico” e il “robusto sistema pensionistico” solo ai cosiddetti baby boomers (gli altri non ci sono più), per alimentare odiose fratture tra padri e figli, giustificare proposte di ulteriori tagli anche retroattivi, calpestando i diritti acquisiti.

 

Nel saggio Damiano-Gnecchi Il mercato del lavoro sembra assumere le sue configurazioni in modo quasi naturale, a prescindere dall’intervento umano.

In questa prospettiva viene ad essere ignorata l’inevitabile dialettica capitale-lavoro e consegnata alla storia passata l’organizzazione di forze politiche e sindacali in grado di influire sui processi economici e produttivi.

Viene ignorata inoltre una copiosa attività legislativa diretta ad andare incontro alle sole esigenze del capitale e acriticamente rispondente alla, quando non compartecipe creatrice della, “configurazione assunta dal mercato del lavoro”.

Pur riconoscendo che “l’affermarsi dell’ideologia neoliberista e gli interessi del capitalismo finanziario hanno dominato la politica economica e la politica sociale, determinando la precarizzazione delle forme di impiego a partire dagli anni novanta”, si pone l’accento soprattutto sul problema demografico per concludere che ben prima della crisi iniziata nel 2007, “la configurazione pensionistica aveva mostrato la corda per ragioni demografiche”.

La ricetta finisce per riassumersi in una riduzione del ruolo della previdenza pubblica, fino ad una sua trasformazione in assistenza (ricordiamo la proposta di Tito Boeri di definire l’INPS “Istituto della protezione sociale”) e nella sua sostituzione con la previdenza privata.

Roma 7 dicembre 2017

Michele Caponi e Piero Pistolesi