Sentenza 250/2017 della Consulta: un “pieno” di ipocrisie, false verità, pregiudizi e contraddizioni

La sentenza in esame ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 della legge Fornero (L. 214/2011), come modificati-integrati dal decreto 65/2015 (convertito nella legge 109/2015), che avrebbero dovuto recepire i contenuti della precedente sentenza 70/2015 della stessa Corte, che aveva giudicato incostituzionale la norma della legge Fornero che limitava la perequazione delle pensioni in godimento, nel biennio 2012-2013, solo per quelle di importo lordo fino a 3 volte il minimo INPS e nella misura del 100%.

Vediamo e commentiamo le principali motivazioni della sentenza 250/2017, ricordando che il decreto Renzi-Poletti (n. 65/2015) ha rideterminato la perequazione delle pensioni oltre le 3 volte il minimo INPS e fino a 6 volte il minimo nel seguente modo: 40% per le pensioni tra 3 e 4 volte il minimo INPS (anziché il 95% della legge Letta 147/2013); 20% per le pensioni tra 4 e 5 volte il minimo INPS (anziché il 75%); 10% per le pensioni tra 5 e 6 volte il minimo INPS (anziché il 50%), lasciando naturalmente ancora al 100% la rivalutazione delle pensioni fino a 3 volte il minimo INPS ed escludendo nuovamente da ogni rivalutazione le pensioni di importo superiore a 6 volte il minimo INPS.

  1. Il decreto 65/2015, secondo la sentenza, non avrebbe eluso il giudicato costituzionale della precedente sentenza 70/2015, ai sensi dell’art.136 della Costituzione. In realtà lo ha eluso, nella misura della rivalutazione, per le pensioni oltre le 3 volte e fino alle 6 volte il minimo INPS, mentre lo ha del tutto disatteso per le pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS, cui non è stata riconosciuta rivalutazione alcuna. Infatti i “termini esposti” nella sentenza 70/2015, cioè che la originaria previsione della legge Fornero avesse intaccato “diritti fondamentali, connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.)”, sono chiarissimi e si riferiscono certamente anche alle pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS. Inoltre, come riconosce la stessa sentenza 250, “la disciplina dettata dal legislatore deve essere valutata nella sua interezza, perché costituisce un complessivo – ancorché temporaneo – nuovo disegno della perequazione dei trattamenti pensionistici”. Quindi è la stessa Corte di oggi che non rispetta e non crede alle sue sentenze di ieri, a Costituzione immutata.
  2. La sentenza 250/2017 afferma che il decreto 65/2015 non poteva, nel caso in questione, nell’accogliere le sollecitazioni di “questa Corte” (sentenza 70/2015), “che produrre effetti retroattivi, purché circoscritti – come in effetti è stato – all’arco temporale relativo agli anni 2012 e 2013, cui faceva riferimento la disposizione annullata”. In realtà, ancorché retroattivo, l’effetto del decreto 65/2015 non è stato limitato al biennio 2012 e 2013, infatti (comma 25-bis) per i percettori di pensioni oltre 3 volte il minimo INPS e fino a 6 volte il minimo, si è protratto per il biennio successivo (2014 e 2015), con abbattimento al 20% di quanto già concesso a titolo di perequazione nel biennio precedente e, dal 2016 in poi, con abbattimento al 50%. Questa concessione (prima) e retrocessione (poi) è una assoluta contraddizione, in tema di riconosciuta perequazione delle pensioni. Anche per i percettori di pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS l’effetto perverso della legge Fornero, ribadito dal decreto 65/2015 (comma 25, sub e) si è protratto a tempo indeterminato, dimostrando che la Corte, su questi aspetti, non ha affermato il vero. In concreto, il decreto 65 ha restituito circa il 10% di quanto maltolto dalla legge Fornero in tema di perequazione nel 2012-2013.
  3. La sentenza 250/2017 afferma che “Deve escludersi che, in capo ai titolari di trattamenti pensionistici, si fosse determinato un affidamento nell’applicazione della disciplina immediatamente risultante dalla sentenza 70/2015” (cioè i migliori criteri perequativi della legge 388/2000, preesistente alla legge Fornero). La Corte evidentemente dimentica che i massimi esponenti dello stesso Organismo avevano dichiarato pubblicamente che la sentenza era “immediatamente applicativa” e bisogna proprio dare degli sprovveduti, specie a coloro che si erano rivolti alla magistratura per veder riconosciuto il loro diritto alla perequazione, qualora essi avessero ritenuto ininfluente la sentenza 70/2015, anche per quanto riguarda il contenzioso in atto.
  4. Veramente penosa e fuorviante risulta la argomentazione della sentenza 250/2017 circa la oziosa, e del tutto opinabile, questione se l’onere imposto dalla mancata indicizzazione delle pensioni “per soli due anni”, con conseguente “trascinamento”, sia “onere esorbitante” rispetto alle esigenze “di interesse generale, perseguite dai denunciati commi 25 e 25-bis”, come modificati-introdotti dal decreto 65/2015. In realtà negli ultimi 11 anni, per 8 anni (72% del periodo) la indicizzazione delle pensioni oltre le 6/8 volte il minimo INPS è stata del tutto azzerata nel 2008, 2012, 2013, limitata al 40% nel 2014 fino all’importo di 6 volte il minimo INPS (circa 3.000 €) e ancora azzerata sugli importi ulteriori, ridotta al 45% sull’intero importo dell’assegno negli anni 2015, 2016, 2017, 2018. Come conseguenza di tale accanimento, la pensione di questa categoria di pensionati ha perso non meno del 10-15% del suo valore reale, ed in via definitiva e crescente (ad oggi, da circa 500 a 1.000 € netti/mese, a seconda della misura della pensione di diritto in godimento).
  5. La sentenza 250/2017 esclude in modo stizzito, ribadendo un suo precedente giudizio, cioè che “le misure di blocco della rivalutazione automatica, ed il suo effetto di trascinamento, abbiano natura tributaria”, quasi che fosse impossibile modificare le statuizioni precedenti, quando errate, ovvero confermare quelle coerenti con la lettera e lo spirito della Costituzione vigente. La motivazione secondo cui le misure di blocco della perequazione “non ne muta la natura di misura di mero risparmio di spesa e non di decurtazione del patrimonio del soggetto passivo” è veramente ridicola, ancor più dopo che la legge 196/2009 ha stabilito (come da consolidata logica economica e contabile) che la copertura finanziaria delle leggi che comportino nuovi e maggiori oneri, ovvero minori entrate, può essere determinata anche “mediante riduzione di precedenti autorizzazioni di spesa”. E così i sacrifici imposti ai pensionati anzidetti sono andati ad alimentare provvedimenti, altrettanto impropri del Governo Renzi, quali il bonus degli 80 €/mese ai redditi medio-bassi, ma senza rinnovare il contratto scaduto dei pubblici dipendenti e indicizzare le pensioni medio-alte, il bonus-mamme, il bonus-bebé, il bonus-casa, il bonus-cultura, ecc., tutte scelte discrezionali e discriminanti, senza pensare alle esigenze di carattere generale, e ancor meno a ridurre il debito della Stato, o a ridurne il deficit annuale, ma solo a raccattare un consenso immeritato con denaro altrui.
  6. La sentenza 250, dopo aver ricordato che la rivalutazione automatica delle pensioni “ si prefigge di assicurare il rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti di quiescenza” e di aver fatto riferimento, nella sua decisione, ai principi di solidarietà, razionalità-equità, quindi di ragionevolezza, “tenuto conto del contenimento della spesa e chiarendo che deve essere comunque salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima le esigenze di vita” dei singoli pensionati, dichiara di aver raggiunto l’obiettivo “per il tramite e nella misura” dell’art. 38, secondo comma, della Cost., il che comporta “solo indirettamente” un aggancio all’art. 36, primo comma, Cost. (in piena dissonanza quindi dalle conclusioni della sentenza 70/2015), conclude con queste affermazioni sconcertanti:
  • che le esigenze del legislatore sono preservate “attraverso un sacrificio parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati a tutelare il potere d’acquisto dei propri trattamenti”. Per i pensionati oltre le 6 volte il minimo INPS (che, tra l’altro, sono quelli che hanno il miglior rapporto tra contributi versati e relative prestazioni previdenziali) il sacrificio della perequazione è, in realtà, totale e permanente;
  • che le pensioni medio-alte (individuate in quelle oltre le 6 volte il minimo INPS) presentano “margini di resistenza all’erosione del potere d’acquisto causata dall’inflazione”. In realtà l’inflazione non distingue tra pensioni alte o basse, ma quelle alte subiscono maggiore danno perché sono gravate da un carico fiscale progressivo e crescente e la loro indicizzazione (a prescindere da tagli o blocchi) è già percentualmente ridotta in via ordinaria;
  • che negli anni 2011 e 2012 l’inflazione è “di livello piuttosto contenuto”. Falso! Infatti il recupero inflattivo riconosciuto, rispettivamente negli anni 2012 e 2013, è stato del + 2,7% e del + 3%;
  • che il taglio (per le pensioni oltre le 3 volte e fino a 6 volte il minimo INPS) o il blocco (per le pensioni oltre le 6 volte) “possa pregiudicare l’adeguatezza degli stessi (trattamenti), considerati nel loro complesso, a soddisfare le esigenze di vita”. Qui il ragionamento è paradossale ed irrealistico perché concepisce il termine adeguatezza in modo statico, cioè di pensione sufficiente per definizione, in quanto superiore a 6 volte il minimo INPS, anziché dinamico perché rapportato alle esigenze di vita dei singoli pensionati, che sono mutevoli nel tempo, per definizione, in considerazione del progredire dell’età ed ai maggiori bisogni di salute ed ai costi delle cure connesse, che richiedono tutela. Anzi, dalla sentenza pare emergere una interpretazione del significato “adeguamento” di senso opposto a quello comune (cioè di crescita), vale a dire di volontà di “adeguare” le pensioni più alte a quelle di misura inferiore attraverso il blocco protratto della indicizzazione delle prime . Sapevamo che quelle anzidette erano le opinioni del Prof Giulio Prosperetti, che nella primavera 2015 aveva criticato per iscritto la sentenza 70/2015 come “manifestamente inadeguata”, lodando l’intento virtuoso del legislatore (Monti-Fornero), cioè “quello di provocare un graduale abbassamento delle pensioni”, naturalmente di quelle alte, in un afflato demagogico populista-pauperista, in spregio a qualsivoglia valutazione dei meriti maturati. Anche il Prof. Antonio Augusto Barbera aveva criticato la stessa sentenza, non a caso prontamente nominati dalle Camere a dicembre 2015 in qualità di giudici costituzionali. Ci auguravamo, tuttavia, che tali opinioni fossero isolate, o comunque minoritarie, ed invece ci troviamo oggi a constatare che tali giudici contribuiscono a dare la interpretazione autentica di una sentenza che avevano pubblicamente criticato.
  • Infine, nell’applicare il principio di proporzionalità ai trattamenti di quiescenza – considerati nella loro funzione sostitutiva del cessato reddito di lavoro – la Corte nella sentenza 250 ha precisato che ciò non comporta “un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione” (cosa peraltro che nessuno di noi ha mai chiesto e chiede), e che la garanzia dell’art. 38 Cost. (adeguatezza nel tempo delle pensioni) “è agganciata anche all’art. 36 Cost., ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale”. Dalle considerazioni anzidette la sentenza 250/2017 giunge alle conclusioni che le argomentazioni esposte, anche con riferimento al principio di adeguatezza di cui all’art. 38 Cost., muovono nella direzione della “non irragionevolezza” del “bilanciamento” operato dai commi 25 e 25-bis tra l’interesse dei pensionati e le esigenze finanziarie dello Stato. Senonché perché ci sia un bilanciamento effettivo bisogna che su entrambi i piatti della bilancia ci sia qualcosa, mentre sul piatto della bilancia degli interessi dei pensionati oltre le 6 volte il minimo INPS non c’è nulla. Inoltre ci vuole un bel “coraggio” nel non vedere l’effetto discriminante prodotto dal d.l. 65/2015, che si manifesta sia all’interno della stessa categoria dei pensionati, che hanno avuto nel tempo un analogo regime previdenziale (calcolo della pensione con meccanismo totalmente o prevalentemente retributivo, a prescindere dal fatto che siano stati gratificati o no dal mantenimento della indicizzazione, realtà che evidentemente è sfuggita alla Corte), sia tra i pensionati ed i titolari di redditi non da pensione, ma di analogo importo. Inoltre i criteri della deindicizzazione sono capricciosi (quindi arbitrari), infatti distinguere tra fasce di importo delle prestazioni indicizzate, e fasce totalmente escluse, può determinare (come determina) il paradosso secondo cui chi ha avuto nella vita lavorativa lavoro più qualificato e maggiori retribuzione e contribuzione previdenziale, può poi trovarsi a godere di una misura pressoché identica di trattamento pensionistico, scardinando così l’altro principio costituzionale (oltre all’adeguatezza, di cui all’art. 38 Cost.), cioè quello che prevede la necessaria proporzionalità tra retribuzione goduta e pensione maturata, intesa come retribuzione differita (art. 36 Cost.).

Naturalmente le esigenze finanziarie dello Stato non hanno tratto alcun beneficio dall’accanimento contro le pensioni dei titolari di assegni oltre le 6 volte il minimo INPS. D’altra parte cosa si poteva sperare, tartassando 770.000 pensionati, lasciando pressoché immuni (o marginalmente penalizzati) gli altri 15 milioni e mezzo di colleghi pensionati anch’essi?.

E così il debito dello Stato è continuato a salire e l’equilibrio di bilancio (anzi, il pareggio di bilancio, sacralizzato in Costituzione nel 2012) è di là da venire.

E perché gli squilibri e gli errori nel bilancio dello Stato non si correggono, anziché rubando dalla tasca dei pensionati che non beneficiano della no tax area, anzi vengono tassati due volte, evitando piuttosto gli sprechi e le regalie (di tipo elettoralistico, ad esempio, come sono l’orgia dei bonus), nonché combattendo la corruzione politica (che è tanta parte della mala-gestione della cosa pubblica), l’evasione, le ruberie, le tangenti, le complicità, i privilegi ingiustificati, gli illeciti arricchimenti, la illegalità diffusa, ecc.? Ognuno degli obiettivi anzidetti sarebbe in grado di acquisire allo Stato risorse ben maggiori di quelle che possono derivare dai pensionati.

In definitiva, ritengo che la sentenza in commento sia vergognosa e contraddittoria, ma certo qualche imbarazzo devono averlo avuto anche gli attuali giudici costituzionali, se hanno avuto il pudore di non andare al di là della definizione di “non irragionevolezza” attribuito alle norme di cui ai commi 25 e 25-bis dell’art. 24 della legge Fornero, come rinnovati dal decreto 65/2015 del Governo Renzi.

Tuttavia è insopportabile l’ipocrisia della Corte nel “far finta” che ci sia continuità e coerenza tra la sentenza 70/2015 e 250/2017 per poter “bollinare” come costituzionalmente legittimo l’inguardabile decreto 65/2015, convertito in legge 109/2015.

Questa sentenza ripropone oggi la questione enorme del modo di essere della Corte costituzionale, cioè di Organismo compiacente al limite del servilismo nei confronti del Potere politico e legislativo, vera appendice della politica, anche della peggior politica, al punto di disattendere principi e valori della Costituzione vigente e sconfessare decenni di sentenze coerenti in materia previdenziale, addirittura interpretando la nostra Carta alla luce di quella che non è ancora legge, ma semplicemente disegno di legge costituzionale (dei deputati Mazziotti ed Altri) di modifica dell’art. 38 della Costituzione, che vorrebbe dettare criteri, modalità, limiti attraverso i quali realizzare, o contingentare, l’adeguamento delle pensioni.

Senza precise garanzie di indipendenza, qualità e libertà di giudizio, la Corte costituzionale non ha alcuna utilità e ragione di essere.

Dott. Carlo Sizia – Comitato direttivo nazionale FEDER.S.P.eV.